La storia di Matteo Salandri, atleta nazionale di parasurfing
Chi non è appassionato o appassionata di surf potrebbe non aver notato una tavola particolare che si destreggiava fra le onde agli ultimi Campionati Mondiali ISA di parasurfing nella categoria visual impaired. Si trattava della tavola di Matteo Salandri, atleta italiano, che ci ha concesso l’onore di supportarlo nella sua impresa mondiale. Matteo non è però “solo” un atleta, ma è anche laureato in Giurisprudenza e da sempre è attivo in tema di accessibilità. Abbiamo quindi deciso di intervistarlo, perché ci raccontasse la sua storia e come le persone con disabilità visiva possono fare surf.
Ciao Matteo, siamo felici di essere qui con te per questa intervista e di averti finalmente incontrato di persona. Parlaci un po’ di te e di come ti sei avvicinato al mondo dello sport.
Ciao a voi! Sono Matteo Salandri, romano, romanista, italiano e cittadino europeo. Ho 34 anni e sono da sempre un grande appassionato di sport e ho rappresentato l’Italia agli ultimi Campionati Mondiali ISA di parasurfing con la vostra tavola, ma questo già lo sapete. Partiamo dall’inizio: ho scelto quasi “per sbaglio” di studiare all'università, pensando di intraprendere gli studi di Fisioterapia e portare avanti in parallelo anche la mia passione per lo sport, calcolando che anche nello studio quindici anni fa la tecnologia non era pervasiva come ora e gli strumenti a disposizione non erano tanti. Alla fine la scelta del percorso di studi è ricaduta su Giurisprudenza, una scelta transitoria, era il 2007 ed era l’anno prima delle Paralimpiadi di Pechino e mi allenavo dai 6 ai 7 giorni alla settimana, praticando l'atletica leggera, all’epoca.
E come hai iniziato ad avvicinarti al tema dell’accessibilità?
L’idea era di prendere un anno sabbatico per allenarmi e contemporaneamente studiare, esame dopo esame ho preso la laurea. “Fai la tesi sullo status giuridico del cieco in Italia” è il suggerimento che più mi arrivava tra i miei professori a causa della mia disabilità visiva. Il diritto è una cosa alla portata di tutti e i più bravi docenti sono quelli che ti spiegano concetti complessi con una semplicità disarmante: l’idea mi affascinava, ma non mi esaltava. Volevo portare avanti il concetto che il linguaggio deve essere più diretto e più alla portata di tutti, contando che il cittadino non sempre riesce ad avvicinarsi ai temi complessi della legge in maniera agevole. In fondo, è accessibilità anche questo.
Quanto l’accessibilità della tua facoltà e degli strumenti di studio hanno pesato sulla tua scelta?
Come vi raccontavo, il mio primo obiettivo era studiare Fisioterapia per rimanere in ambito sportivo. Per fare questo c’erano due modi: andare a Firenze, dove l’università riserva posti alle persone con disabilità visiva, oppure provare a superare il test di ingresso a Roma. La scelta era tra l’università La Sapienza e l’Università Cattolica di Roma. All’epoca ero ipovedente ed entrambe le facoltà offrivano un tutor che mi affiancasse per fare il test di ingresso. Nel 2007 la prova non era completamente accessibile; l'unico vantaggio per me era avere più tempo per affrontarla e la presenzia di un tutor che leggesse ad alta voce le domande. I grafici e i test di logica restavano inaccessibili e all’epoca il concetto di accessibilità era ancora molto rigido.
A questo punto il tema dell’accessibilità era ormai nelle tue corde. Sappiamo che hai avuto anche un’esperienza di studio in Olanda. Com’è andata?
L’Erasmus è stato uno dei primi grandi test in tal senso: i testi in digitale erano, oggi come allora, fondamentali per preparare gli esami e per l’apprendimento. In Olanda andavano richiesti in anticipo, erano prodotti dalla stessa università, ma gli step per averli, nonostante la presenza di uno student advisor, erano complicati. In Italia c’era più sensibilità sul tema, più strade per essere ascoltati, anche grazie alla Legge Stanca del 2004. C’era anche la possibilità di richiederli alla casa editrice che li pubblicava, avevo modo di reperirli alla Biblioteca Nazionale Ciechi o potevano essere forniti dall’università stessa che si occupava di fare le scansioni.
E dopo la laurea? Avevi già in mente il tuo percorso?
Dopo la laurea è arrivato il momento di scegliere un tirocinio formativo. L’interesse reale non era diventare avvocato, ma ero molto ispirato dal Diritto della Navigazione Marittima e Aerea, sentivo che era la strada da seguire per me. Fino al 2015 mi allenavo e parallelamente portavo avanti l’attività sportiva: andando a Milano ho poi frequentato un master sui trasporti molto rinomato, tenuto dall’Università Bocconi, con una borsa di studio. Avrei potuto pensare di tentare anche la strada della magistratura, su consiglio del professore, ma non faceva per me.
C’era un tema che ti appassionava particolarmente nel tuo corso di studi?
Nel settore della mobilità e trasporti spesso si parlava di un megatrend: uno di quelli più quotati era l’aumento dei passeggeri a ridotta mobilità correlato al tema dell’invecchiamento della popolazione. Questa tematica coinvolgeva molti aspetti diversi: si parlava di passeggeri con ridotta mobilità sia per una disabilità permanente, sia per una temporanea, come anche di contesto, ad esempio, per la presenza di passeggino, di una grossa valigia, di buste della spesa ingombranti e via dicendo. Quando i professori parlavano di queste tematiche, però, nessuno entrava nel dettaglio. La mia sensazione era che fosse un tabù: la paura di comunicare e di fare gaffe era molto forte, convivevano in egual misura una base di disinteresse e una di incompetenza, dovuta al fatto che l’argomento era ancora di nicchia. Inoltre, il master dell’Università Bocconi era molto competitivo ed era necessario conseguire voti alti. Alcuni degli allievi avevano già un’ esperienza lavorativa all’attivo e aspiravano ad un miglioramento della propria condizione lavorativa. A questo punto era fondamentale per me trovare il mio vantaggio competitivo e trovare la risposta alla domanda: “Che cosa hai tu più degli altri?”. La chiave era proprio questa: capirne di più sul megatrend, calcolando che normalmente le esigenze di tutti prevalgono su quelle del singolo e non è detto che una persona cieca comprenda le esigenze di tutte le persone con diverse disabilità, cosa che è uno stereotipo.
Come hai intrapreso il tuo percorso lavorativo di Esperto di accessibilità delle infrastrutture, trasporti e digitale?
Tutto è iniziato con un colloquio ai Career Day dell’università con Rete Ferroviaria Italiana, che era alla ricerca di un esperto legale in Real Estate. Io parallelamente volevo preparare una tesi sull’accessibilità del sistema ferroviario. All’epoca si pensava che questa fosse materia di interesse esclusivo di un architetto, ma non era così: era necessario pensare ad un approccio trasversale. Lo stage fu così fruttuoso che si trasformò in un’assunzione.
Che cos’è l’accessibilità per te e come enti pubblici, amministrazioni e aziende la possono integrare nei propri processi?
L'accessibilità è un settore regolato, o, almeno, ad oggi inizia ad essere tale: la legge ti dice cosa, la regolazione ti dice come. Le aziende, le Pubbliche Amministrazioni e le organizzazioni devono adeguarsi. Da quando sono entrato in azienda, ho iniziato a studiare la normativa sull'accessibilità a livello fisico e a livello web. Questa è l'ultima una grossa sfida: è un tipo di accessibilità invisibile, è difficile da far capire. Se manca un ascensore, te ne accorgi, se un sito web non è accessibile no.
Tornando allo sport, quando hai capito che poteva essere veicolo di inclusione?
Intorno ai 10,12 anni: per il mio problema agli occhi non potevo fare giochi con la palla e prendere colpi in faccia, il calcio era fuori discussione. Nuoto era un'altra possibilità, ma sono stati i giochi di Atene e la corsa hanno fatto scattare la scintilla. Volevo diventare forte nella corsa, entrare in campo con l'atletica leggera. Roma è una città gigante, a livello di logistica, mia mamma non riusciva ad accompagnarmi al campo, prendere i mezzi pubblici a questo punto sarebbe stata l'unica soluzione. All’inizio sembrava un po’ impraticabile muovermi da solo, ha richiesto un atto di coraggio: ero ipovedente all’epoca e quello è stato il mio primo gesto di reale autonomia.
Lo sport è importante per tutti e la disabilità è un’amplificazione delle cose: se per molti lo sport è parte fondante della propria vita, per una persona con disabilità lo è ancora di più.
Qual è stato il tuo primo approccio con il surf? È stato subito amore o un rapporto complicato?
Avevo un casa al mare e intorno ai 12 anni ho avuto il mio primo incontro con lo scivolare sulle onde: un giorno, con il mare mosso, ho travolto un bambino con la mia tavola bodyboard e mi sono convinto che quella non fosse la mia strada. La scintilla è scoccata nuovamente poi ai tempi dell’università: un’amica e compagna di studi mi racconta del surf alle Canarie e qui nasce l’idea di volerlo nuovamente fare, al di là dei possibili ostacoli “logistici”. Poi un giorno nel 2018 navigando su internet un’amica mi ha condiviso un evento su Facebook di un surf camp. Prendo contatti, faccio una prova a Fuerteventura e da lì non ho mai più smesso.
Che cosa ti piace di questo sport?
Il surf non è come una gara di atletica: nel surf vince chi si diverte di più, anche se di livelli diversi, e gli atleti possono sempre divertirsi, al di là della gara e dello spirito competitivo. Quando ci sono le competizioni c’è una bella vibe, ci si incita a vicenda durante la gara e appena usciti dall’acqua ci si complimenta con il vincitore. La parte più divertente è fare free surf: più sei preparato fisicamente, più resti in acqua e più ti diverti. Nelle manifestazioni sportive con atleti con disabilità non percepisci l’aspetto negativo di questa condizione, è un messaggio molto positivo. Ovviamente non è uno sport impossibile, ma con le onde grosse devi avere fegato. Il surf nel mio caso mi aiuta ad essere calmo, di base c’è sempre la paura, ma insegna a gestirla e a gestire meglio di conseguenza anche lo stress.
Ma una persona cieca come fa a fare surf?
Non è impossibile, anzi. Semplicemente ho una guida accanto che dà indicazioni a voce, senza toccarmi durante la gara. Prima di entrare in acqua, sul palmo della mano mi segnala le direzioni delle onde e il percorso da fare, mi dice con che inclinazione e quando arriva l’onda, mi annuncia quando è il momento di prepararmi. A questo punto siamo io e il mare: sono piatto sulla tavola, remo con le mani e mi alzo per prendere l’onda, nient’altro.
Sono stati anche i nostri valori comuni e lo sport hanno fatto incrociare le nostre strade con la sponsorizzazione della tua tavola da surf ai Mondiali di adaptive surfing in California. Ci racconti com’è andata?
Una call di AccessiWay è stata la scintilla, l’interesse comune sull'accessibilità ha fatto sì che venisse naturale collaborare. Il mio primo contatto con voi è stata Dajana Gioffrè, mia amica da tanti anni e Chief Visionary Officer da voi. Mi ha parlato della possibilità che l’azienda sponsorizzasse la mia tavola da surf proprio in occasione dei mondiali di adaptive surfing in California. Com’è andata? In gara tutto liscio, la prima volta che sono entrato in acqua con la tavola ho provato qualcosa di forte, sì, mi ha colpito sulla testa! Sicuramente è stata un’esperienza molto di impatto.
In conclusione, che cosa possiamo fare in concreto per migliorare l’accessibilità secondo te?
L’accessibilità è a tre dimensioni: fisica o sensoriale, digitale e sociale: una volta abbattute le barriere sociali il resto viene più semplice. Sostanzialità e concretezza nell’accessibilità sono fondamentali. Partendo da quella legale o digitale, non è sufficiente la conformità o l’accessibilità legale, ma si tratta di un obbligo etico e morale per tutti. L’accessibilità è un percorso, non è un approccio fatto e finito, ci sono sfumature: quello che oggi è accessibile magari tra quindici anni non lo sarà più. Si tratta di una questione di innovazione, di creatività. Impegnandoci tutti, non è impossibile.
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